IL RITORNO - Palazzo Raho

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Tra sogno e realtà
“(…) Preferisco un abbigliamento più ordinario quando non lavoro. Ma quella sera non avevo possibilità di cambiarmi d’abito!
Avevo premura di prendere contatto con quella deliziosa piazza deserta vegliata da Angeli e santi martiri. Lassù, sulla colonna.
Si, è bella quella piazza, sonnacchiosa nei meriggi estivi e rannicchiata, come infreddolita, nelle sere invernali. Essa è situata nel cuore di un piccolo borgo, appena a ridosso delle sponde del Mediterraneo! A sud, verso i Balcani e la Grecia, nel bel mezzo di una penisola foggiata a mo’ di tacco a reggere lo stivale italico, e distesa tra l’Adriatico e lo Jonio. Dove la pietra dà ritmo alle cose e disegna i contorni delle case, dando consistenza alla luce e spessore alle ombre.  E senso al sole, di giorno, ed alla luna, di notte!
Su di essa affaccia una dimora antica che nasconde un’anima in attesa di essere risvegliata!
Un po’ seccato ed un po’ divertito, Marcel, pensieroso, si osservava addosso l’abito elegante, da manager metropolitano, indubbiamente fuori luogo in quel contesto dimesso, tipico dei paesini meridionali. Ma non c’era tempo per andare a casa, in campagna, per cambiarsi d’abito. La sera, il buio, incombevano. E in quella dimora abbandonata e, in alcune parti, diroccata, non vi era alcuna illuminazione.(…)”
“(…)Aveva visto quel palazzo oltre un anno prima, nel suo peregrinare alla ricerca di una soluzione meno faticosa rispetto alla residenza in campagna, immersa nella solitudine più silenziosa e nel buio più tetro, nei lunghi mesi invernali. Con il circondario deserto. Era stato amore a prima vista. Austero ed aristocratico. Di chiara ispirazione rinascimentale. Non era poco in una terra barocca. Dappertutto, spudoratamente, barocca. Aveva un grande portale, realizzato come il resto, in pietra del posto, chiara e luminosa, tendente ad un tenue colore giallo per effetto del sole assorbito nei secoli. Era sormontato da un arco ad alcova impreziosito da una doppia cornice lungo gli spigoli e adagiato su un duplice ordine di lesene incastonate, per gran parte del loro spessore, nel possente muro della facciata. Il portale era chiuso da un antico portone di legno massiccio e spesso. Molto spesso. Doveva avere almeno tre secoli, dicevano i paesani guardandolo ammirati. In effetti quel portone sembrava l’unico a non volersi arrendere al declino di quella dimora e ne preservava i segreti. Era un tipico portone patrizio, tempestato di borchie di ferro nella parte inferiore, e con due grandi teste leonine munite di batacchio per annunciare eventuali visite e visitatori, di cui una in corrispondenza della parte su cui si apriva il varco pedonale. Insomma, uno di quei portoni che rimanevano solitamente chiusi se non per far entrare le carrozze dei proprietari o di qualche ospite.  Portone ed arco erano scanditi, all’esterno, da un doppio ordine di lesene ornate, nella parte terminale, con ampi drappeggi realizzati dallo scalpellino alla maniera di quinte teatrali arricchite con motivi floreali e sostenute, agli angoli, a garantirne scenograficamente la triplice apertura, dal becco adunco di altrettanti volatili appollaiati sui capitelli superiori e disposti a sostegno della leggiadra balaustra sovrastante che catturava lo sguardo e ti bloccava con il naso all’in sù. (…)”
“(…)Almeno questo era stato l’effetto su Marcel. Anzi quella balaustra e quel che essa lasciava intravvedere o piuttosto immaginare, era stato il motivo fondamentale del suo innamoramento a prima vista. Come lo avrebbe potuto essere il viso leggiadro di una donna avvolta da una fluente chioma attraversata dai bagliori color oro e arancio e illuminata da due occhi azzurri e profondi come il mare. Gli unici in grado di reggere la bellezza del sole al tramonto. La Balaustra era scandita da una lunga teoria di colonne tornite a mo’ di fusi rigonfi nella parte centrale e completate, alle estremità, da piccoli parallelepipedi. Essa chiudeva, a sua volta, l’elegante loggiato ad alcova che si disponeva all’interno di un ampio balcone delimitato agli angoli, da una parte e dall’altra, da due possenti colonne in pietra, alti più o meno fino alla vita di una persona, che riprendevano i motivi delle lesene ed erano decorati, quelli esterni con cerbiatti rampanti e quelli interni con putti danzanti. Sul portale, al centro della parete su cui poggiava la balaustra, dominava lo stemma nobiliare, imponente nonostante i guasti dell’incuria oltre che del tempo. In esso si poteva distinguere un’aquila reale sormontata da un serto di corone appollaiata su qualcosa che doveva essere stato un tralcio di vite o un ramo di olivo o, molto più probabilmente, un intreccio di entrambi.(…)”
“(…)Da quelle parti la nobiltà veniva dalla terra o, comunque, ad essa era legata. Il loggiato lasciava intravedere, sullo sfondo, un elegante ingresso impreziosito da un frontone di ispirazione greca. Esso, a sua volta, era incorniciato, all’esterno, da un arco, lavorato con fini scanalature lungo le cornici mentre, all’apice della curvatura, prendeva forma un fregio ricco di volute ed elementi floreali, concessione alle tentazioni barocche di quella terra. Le colonne che reggevano l’arco riprendevano anch’esse, nella loro forma squadrata, i motivi delle lesene che contrappuntavano la facciata nella sua interezza e che si protendeva, curiosa, verso l’elegante cornicione che annunciava il terrazzo. La facciata era completata da una teoria di finestre, alcune ancora integre, altre dismesse o semi ostruite, poste al pian terreno ed al primo piano ed anch’esse racchiuse in forme che richiamavano la struttura greca del loggiato e che un tempo dovevano disegnare una perfetta simmetria tra vuoti e pieni. L’impatto, una volta restituito il tutto al suo splendore originario, doveva essere davvero sorprendente. Marcel, più che immaginarlo, lo vedeva già realizzato nella sua mente (…)”
“(…)Marcel avrebbe restituito l’anima a quella dimora che da troppo tempo era rimasta chiusa ed in stato di abbandono. Era ormai trascorso un secolo intero e forse più dacché la principessa Lou non si affacciava più dai suoi balconi sulla piazza, scandita dalle geometrie barocche di quel paesino del Sud immerso nel Mediterraneo! Di sicuro la principessa avrebbe gioito al pensiero di tornare ad aggirarsi tra le sue antiche stanze che correvano verso la piazza dominata dalla colonna di San Vito, soffermandosi tra le opere d’arte che senza soluzione di continuità ed in uno spazio illimitato contrappuntato da archi e scale, alti soffitti e finestre protese verso i nobili palazzi di là dalla piazza, in compagnia del maestro e di Mr. Pop, di Ludwig e di Yè, oltre che di tutti gli invitati antichi e moderni che sarebbero tornati a popolare il suo palazzo. Mr. Pop avrebbe preso per mano la principessa e l’avrebbe condotta nuovamente verso il balcone, oltre l’alcova del loggiato, infondendole il coraggio di rivolgere la sua attenzione, finalmente, verso gli spasimanti che a turno, da tempo immemore, perdevano le loro ore ad attendere sulla piazza che lei si affacciasse e magari dispensasse loro qualche sguardo e, perché no, qualche sorriso. Adesso anche a lei sarebbe stato consentito, finalmente, di seguire il corso dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti. Il censo e le consuetudini che avevano incatenato il suo spirito ribelle, non si sarebbero più frapposte all’incontro tra desiderio e speranza. La palma della Sublime Porta e i fiori del cristiano impero si sarebbero mescolati in un groviglio inestricabile.(…)”
“(…)La principessa non sarebbe più stata costretta alla partenza per la Spagna ed il visir non sarebbe più dovuto fuggire in direzione della Turchia a recidere impossibili destini di amore con la morte. Finalmente il sogno di Guglielmo, il normanno, e di Ruggero suo nipote, sarebbe divenuto realtà e l’armonia tra cristiani e musulmani, ebrei e ortodossi, guerrieri e principesse, avrebbe nuovamente prodotto capolavori di bellezza oltre che di felicità. Il Mediterraneo, in un piccolo angolo, sarebbe tornato agli splendori della civiltà ed avrebbe custodito il pensiero, l’arte e la poesia, in luoghi destinati a sfidare la storia contro incuria e abbandono, violenza e barbarie. E Mr. Pop, per una volta, abbandonate le valige, si sarebbe messo a servizio della giovane principessa Lou e l’avrebbe accompagnata a riprendere possesso del suo palazzo, guidandola lungo gli spazi restituiti allo splendore e impreziositi dalle opere del maestro che di certo sarebbe comparso prima o poi, di ritorno dalla torre in campagna o dal labirinto di viuzze disseminate nel suo quartiere romano, con il sorriso felice nascosto dietro i folti baffi e chiuso nell’abito di antico nobiluomo. Perché bisognava rendere omaggio alla giovane principessa in procinto di sposare il suo principe popolano.(…)”
“(…)Riempire quel palazzo di arte fino a farlo risplendere di bellezza in ogni suo angolo. Restituirlo allo splendore della principessa Lou che, come una volta tanto tempo fa, avrebbe organizzato le sue serate e i suoi cenacoli a cui egli stesso non si sarebbe sottratto conducendovi anzi i suoi amici e trovandone dei nuovi, era ormai il progetto di Marcel. Qualcosa di più reale di un sogno. L’aspirazione della principessa di tornare ad aggirarsi nel suo antico palazzo passeggiando nel tempo come solo gli spiriti eletti sanno fare sarebbe divenuta presto realtà. Come realtà sarebbe divenuto il viaggio attraverso le culture dei popoli. Le avrebbero fatto buona compagnia le opere del Maestro, le opere di Ludwig e di Yè e quelle degli altri artisti, pittori e scultori che egli aveva raccolto nelle sue peregrinazioni in giro per l’Europa ed il Mondo. Quando in giro per il mondo vi andava con Albertine. Ma anche le opere che egli aveva raccolto in solitudine tra mercatini e antiquari e gallerie sparse qua e là. Mentre le porte di accesso alle epoche passate, su, su, fino ad arrivare ai primordi del pensiero, sarebbero state aperte all’anelito di Lou, e di quanti l’avrebbero leggiadramente attorniata, dal serpentone di libri e volumi di tutte le fogge e di tutte le epoche che si sarebbero disposti sui leggii accanto ai loro autori, lungo l’intero perimetro del palazzo a far da cornice agli ospiti se mai avessero voluto interloquire e da contrappunto alle tele, alle carte, alle sculture antiche e moderne, in pietra e bronzo, in legno ed in creta, in una spirituale continuità con le vicende che, lungo i secoli, avevano avvolto la torre e la campagna e  le contrade tutte intere che, da quelle parti, avevano attraversato le trasformazioni della terra sin dall’epoca del Neogene. (…)”
“(…)Nel rinato Palazzo, Marcel, con la protezione di Mr. Pop non avrebbe trascurato di restituire al suo antico splendore il giardino prigioniero di rovi ed erbacce a nascondere pietre antiche ed un pozzo dai ricchi capitelli, ancora rigonfio di acqua al centro di quanto restava di un nobile porticato che chiedeva attenzione lungo il muro di cinta. Lì in fondo. Il campanile romanico, snello nelle sue chiare cromie sottolineate dalla pietra ricamata nelle eleganti bifore, vegliava ancora dall’alto della sua cuspide su quel giardino, mentre la cupola maiolicata della grande chiesa rinascimentale rimandava il pensiero alle nostalgie arabeggianti sopravvissute in quei luccichii. La principessa Lou sarebbe stata lieta di tornare a passeggiare mollemente in quel giardino, lasciando il suo sguardo vagare tra passato e presente fino ad approdare nel sogno delle mille e una notte in compagnia dei suoi amanti prigionieri da un tempo immemore di una inutile attesa in quella piazza che si stendeva, muta, da secoli, sotto i suoi balconi. Marcel e Mr. Pop avrebbero soffiato la vita in quel sogno e finalmente il desiderio d’amore di Lou e dei suoi spasimanti avrebbe preso consistenza e, con esso, la voglia di scoprirsi e riconoscersi. La segreta aspirazione di Lou di aprire il portone sprangato contro il mondo chiuso là fuori, avrebbe trovato realizzazione e con essa anche il gesto liberatorio di lasciar scivolare giù dal balcone le lunghe trecce  trasformate in invitanti viali offerti a quegli assalitori che avessero trovato il coraggio di sfidare il mondo, capovolgerlo  e giungere fino a lei a dare e prendere appassionatamente carezze, sospiri e baci.(…)”
“(…) Si, un tempio della cultura e della tolleranza per gli uomini di domani e per le principesse di ieri riscattati per onorare l’umanità di oggi. Una dimora popolata dai nobili spiriti che l’avevano costruita e frequentata fino all’abbandono. Ad essi si sarebbero uniti quanti avessero voluto condividere il privilegio di vivere nel futuro immersi nel passato, salvando il presente dalla barbarie e dalle ingiurie che pretendevano di negare l’umanità e fare a pezzi la storia come si era dipanata da Neanderthal in avanti. Con Antoine e Mr. Pop, con Yè, Ludwig e Frederic, al cospetto di Lou sarebbe arrivato anche il piccolo Marcel, quello che attendeva le strisce dei fumetti seduto sulla panchina della piazza del paese nei pressi della cartolibreria che non avrebbe aperto prima delle otto di mattina. E non sarebbe mancato, no, non sarebbe mancato il prefetto, colui che avrebbe preso in carico il destino di quel ragazzetto, qualche anno più tardi, recidendone le radici naturali  e turbandone l’animo sino all’angoscia condita di inconfessabili paure di condanne sempiterne, trasformandolo tuttavia in un aquilotto capace di interrogarsi e meditare sulle sue angosce e sulle sue paure, fino a volare verso la conoscenza di sé e del bene e del male come Adamo ed Eva e come Gilgamesh e lo stesso Lucifero. Marcel avrebbe imparato da lui ad amare il latino ed il greco, ad attraversare le tragedie e ad immergersi nel fato, a riconoscere nemesis e hybris, rinascimento e precipizio, oltre che le tortuosità della storia e del pensiero (…) “
“(…)La principessa Lou, gli spiegò, è l’antica proprietaria del palazzo. Fu lei a costruirlo cinquecento anni or sono. Lo volle in un piccolo borgo, lontano dai clamori della vita di corte, inseguendo il suo spirito ribelle. Un po’ nomade, come te, e come Antoine ed anche Yè. Ho fatto delle ricerche. Lou è stata anche l’ultima sua erede, colei che ha abitato il palazzo sino a quando fu abbandonato. Non si era sposata Lou. A differenza della sua antenata non era riuscita a sottrarsi al conformismo dei tempi che avanzavano. Era rimasta prigioniera della sua idea di nobiltà. Si recava in cattedrale la Domenica per la messa che seguiva da una cappella laterale, da sempre riservata alla sua famiglia che ormai si era ridotta a lei sola. Ma nessuno protestava. Anzi assecondavano quella sua mania e la ossequiavano con il loro inchino. Per il resto rimase chiusa in quel palazzo sino ad invecchiare, da sola, ed a morirci anche. Fu il contadino che portava avanti le sue campagne a confortarla. Una sera d’estate, allorché era passato a lasciarle come al solito la verdura e la frutta appena colta, la principessa non rispose alla sua voce. Insistette senza esito e quindi si fece coraggio, la signora era già avanti con gli anni ormai. Salì le scale. La trovò sulla sua poltrona al di qua del balcone che guardava la piazza. Non ci fu nulla da fare.  Le chiuse gli occhi. (…)”
“(…)L’erede della principessa Lou lasciò tutto alla Chiesa. I frati che vivevano in un convento vicino ne fecero una residenza per novizi. Poi le vocazioni erano precipitate, con l’avanzare della modernità. I ragazzi, anche quelli poveri, non avevano più bisogno di andare in seminario per studiare e, ancora dopo, non ebbero più bisogno, né voglia, di studiare, semplicemente. I frati pensarono di liberarsene. Ed iniziò la decadenza, fino all’abbandono. Ludwig, si tranquillizzò. Per un momento si era preoccupato davvero. Aveva pensato che Marcel, durante il loro collegamento notturno, fosse stato vittima di qualche allucinazione e che, quando si era alzato dalla scrivania, completamente dimentico della presenza sua e di Yè, prendendo a scendere le scale, stesse inseguendo qualche fantasma o qualche presenza materializzatasi nella sua mente. Marcel, intuì il pensiero di Ludwig e gli disse ridendo, non ti sei sbagliato di molto. Comunque, l’idea di Marcel di portare al palazzo le sue opere e quelle di Yè gli piacque molto (…)”
“(…) Marcel prese l’abitudine a recarsi, ogni qualvolta i suoi impegni glielo consentivano, ai piedi di quel palazzo. Andarci era come sincerarsi della volontà di riappacificarsi con il suo passato. Quel palazzo, certo, era destinato a sopravvivergli ed egli immaginava che potesse rimanere come testimonianza del passaggio di quei pirati che avevano solcato la contemporaneità, senza trovare ospitalità nei templi consacrati dal potere. Quanto a lui, egli avrebbe assolto al ruolo di custode della cultura estranea alle aberrazioni di EurAsiAm e proiettata a liberare le pulsioni che covavano nella pancia del mondo nel quale egli viveva e di cui era parte. Quel palazzo andava conservato per questo. Ed in fretta.
Il suo tempo non era infinito. Non era più giovane, nonostante tale lo ritenessero in molti che tuttavia non avevano dimestichezza quotidiana con lui.
In quel palazzo, appena restituito ai suoi fasti, egli avrebbe disposto le opere d’arte dei suoi amici, perché così, potessero resistere al tempo. Oltre che rendere leggiadre le giornate di quanti vi avessero voluto vivere nel continuum del tempo. Marcel guardava quella dimora che chiedeva dai suoi splendidi balconi e loggiati, interventi consistenti di restauro, ripristino, liberazione da inutili superfetazioni e immaginava la nascita di uno spazio dedicato all’umanità, certo un piccolo spazio, niente a che vedere con l’Hermitage, ma non privo di orgoglio e fremente di presentarsi agli ospiti che sicuramente Marcel avrebbe attratto (…)
La principessa Lou sarebbe stata felice di ricevere i suoi amici da perfetta padrona di casa ed ogni volta avrebbe riservato uno sguardo complice a lui, Marcel
Ed egli sarebbe partito alla ricerca dell’umanità ed anche alla ricerca di sé.
Certo, alla ricerca di sé ed alla ricerca dell’umanità. Che poi era la stessa cosa.
Più o meno.(…)”
Dall’opera “Tempus Continuum – Primo Volume – Il Ritorno”
di Antonio Corvino
© Antonio Corvino
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